Gerardo Troncone
MONSERRATO
LA CHIESA DELLA PALOMBA MORTA
Come per magia, un bel giorno si spalancano le porte della bella chiesa di Monserrato (foto 1).
La luce scende dall’alto del tamburo che sorregge la grande cupola che sormonta l’altare maggiore, sul fondo dell’aula.
I passi di chi s’inoltra all’interno sollevano sbuffi di polvere sottile, che avvolge da anni ogni cosa.
Pochi metri sulla destra, quello che resta di un superbo sarcofago decorato in oro e porpora, destinato a personaggi insigni.
Poco più avanti, le ali allargate, la testa di fianco, la carcassa di un palombo morto.
L’immagine della palomba morta evoca alla mente proprio la zona appena fuori dalla chiesa, oltre il fiume, proprio di fronte alle Tintiere, che si chiama dei Palombi.
Si chiamavano palombi le pertiche, ossia i lunghi e sottili pali di castagno, negli antichi documenti medioevali. E si chiamavano così a volte anche gli antichi cimiteri dei longobardi, caratterizzati proprio dalla presenza di pali di castagno infissi fra le tombe, alla sommità dei quali erano legate dei palombi morti, che ricordavano i guerrieri caduti in lontane battaglie, dei quali non era stato possibile riportare indietro il corpo.
Tutti ricordano che, fino agli anni Sessanta del Novecento, vigeva in città la triste consuetudine: di “salutarsi a Monserrato”, ossia di sciogliere proprio di fronte alla chiesa tutti i funerali, da qualsiasi parte della città provenienti, porgendo le condoglianze ai parenti.
L’usanza risale certamente agli ultimi anni del Cinquecento, quando nella chiesa si era insediata una confraternita che si curava di seppellirvi i propri defunti. Ma a propria volta quell’usanza potrebbe risalire ad alcuni secoli addietro, se si accertasse l’esistenza, a tutt’oggi solo ipotizzata sulla base del toponimo, di una necropoli longobardi sulla prospiciente collina, costeggiata dall’antica via diretta a Salerno e sulla quale sono anche i resti del seicentesco Lazzaretto.
Dopo essere stato attratto dal corpo rattrappito nel volo della morte del colombo, lo sguardo si posa sul grande sarcofago in legno di colore rosso e oro.
In origine poggiava solenne su quattro zampe di leone. Oggi due delle zampe sono spezzate, ed il sarcofago è inclinato su un lato. Uno squarcio sul lato, praticato per asportarne forse il contenuto, lo fa apparire come lo scafo di un vecchio galeone che sta affondando.
Sta così chissà da quando, ed il mite padre che ci ha accompagnato nella visita, senza voler fare polemica ma con profonda tristezza, racconta di come, una volta che qualche anno addietro aveva ottenuto la disponibilità del Liceo Artistico di Avellino per restaurare l’opera, l’intervento venisse bloccato da un autorevole (?) funzionario dell’Ente preposto alla salvaguardia (?) del nostro patrimonio artistico, che arrivò a minacciare denunce e rappresaglie a chi avesse osato solo toccare con un dito la preziosa opera d’arte.
Che da allora giace lì, in attesa di decomporsi, vicino al corpo in decomposizione della colomba morta
Sul fondo dell’aula, si vede la balaustra in marmo dietro la quale s’erge, solenne e malmesso, l’altare maggiore. Sulla destra c’è una cappella, profonda quasi quanto la navata della chiesa, il cui accesso è delimitato da una balaustra ad intarsi marmorei.
Sia sui due prospetti della balaustra che sui due piedistalli laterali dell’altare, è scolpita una singolare scena: quella di due angeli che reggono una sega con la quale tagliano una montagna (foto 4). L’immagine degli angeli che segano la montagna è la spiegazione visiva della parola Monserrato: nella lontana Catalogna, non molto distante dalla splendida Barcellona, è situato un monte che appare come fessurato, segato: mon serrato.
Proprio sulle falde di quel lontano monte sorge, agli inizi del secondo millennio, un importante monastero benedettino, dedicato della Vergine di Catalogna: il santuario di Monserrato. Vi si venera una Madonna dal volto nero, assisa in trono con il Bambino seduto in grembo che sorregge il globo: la Moreneta.
E sull’altare della cappella della piccola chiesa avellinese non a caso era deposta e venerata una piccola scultura in legno di fattura romanica, raffigurante una Madonna dal volto nero assisa in trono con il Bambino seduto in grembo che sorregge il globo, ricalcante proprio l’iconografia della Moreneta di Catalogna.
La statua della Madonna di Monserrato era al centro della festa mariana più antica della città di Avellino, prima di essere soppiantata agli inizi della seconda metà del XVIII secolo dalla festività dell'Assunta del mese di agosto. Essa veniva portata in processione per la città l’8 settembre, giorno di nascita della Madonna.
Anche nel settembre del 1694 il popolo era accorso come sempre in chiesa per la festività della Madonna, quando sopraggiungeva un fortissimo terremoto: “scapillati e piangenti, imploravano da questa gloriosa Vergine di Monserrato, la grazia di non morire sotto le pietre a questo lacrimevole spettacolo si unirono i padri del monastero ed i fratelli dell'oratorio e «cacciarono la statua processionalmente per tutta la città cantando laudi e preci”.
È soltanto nel Cinquecento che Avellino si riprende appieno dal durissimo colpo inflittogli nel 1440 da Alfonso d’Aragona. Nel 1447 i “fuochi” avellinesi ammontavano appena a 100, rappresentando meno dell’uno% dei fuochi dell’intera provincia, mentre la città veniva nettamente superata non solo da Ariano (con 643 fuochi) ma anche da centri quali Serino, Forino, Lacedonia, Montella , Calitri, Montecalvo, Gesualdo, Atripalda e altri. A metà Quattrocento l’intera struttura parrocchiale della città era stata profondamente riplasmata, con la soppressione di ben dieci parrocchie e con accentramento dell’intero territorio cittadino nella cattedrale, che sarebbe rimasta rimase l’unica parrocchia sino al 1753; l’intera diocesi avellinese non raggiungeva che 5.000 abitanti, e fu unita a Frigento.
Nel giugno del 1507 il Cattolico, che aveva ottenuto nel 1504 il definitivo possesso del Regno con la decisiva vittoria di Cerignola sui Francesi, disponeva che la Contea di Avellino e il Marchesato di Padula venissero data rispettivamente ai fratelli Giovanni e Antonio de Cardona, con la facoltà di poter succedere l’uno all’altro.
La famiglia Cardona era un’illustre famiglia catalana, della quale alcuni membri, trasferitisi in Sicilia nel XIII secolo al seguito degli Aragonesi, avevano acquisito titoli soprattutto per meriti militari.
Giovanni de Cardona sposò Giovanna Villamarina, figlia primogenita di Bernardo, Grande Ammiraglio del Regno, e di Isabella de Cardona, sorella del viceré. Intanto l’ascesa della famiglia raggiungeva l’acme nel 1509, con la nomina a viceré di Ramòn de Cardona, già governatore della Sicilia. Nello stesso anno ai conti di Avellino nasce Maria.
Nel 1510 i fratelli Cardona dovettero partire con l’esercito spagnolo verso la Lombardia per portare il proprio contributo alla Lega Santa promossa da papa Giulio II allo scopo di contrastare la situazione favorevole ai Francesi venutasi a determinare dopo la costituzione della Lega di Cambrai.
Nel durissimo scontro avvenuto presso Ravenna il giorno di Pasqua del 1512, vinto dal generale francese Castone de Foix, il conte di Avellino fu gravemente ferito alla gola e fatto prigioniero, morendo dopo qualche giorno nella città di Ferrara.
Sua moglie Giovanna era intanto già defunta, forse nel 1511.
Antonio, marchese di Padula tornò invece sano e salvo dalla battaglia di Ravenna, ma dopo un breve soggiorno a Napoli, ritornando verso Firenze per assumere l’incarico di capitano generale nella guerra contro Lucca, il 21 settembre 1513 moriva improvvisamente, forse avvelenato, senza lasciare eredi. I due fratelli sono oggi sepolti a Napoli nella chiesa di Santa Maria di Piedigrotta.
La piccola Maria succedeva così prima al padre Giovanni nella Contea di Avellino, e poi allo zio Antonio nel Marchesato di Padula. Sin da quando era rimasta orfana della madre, Maria era stata affidata alle cure della zia Susanna Gonzaga, sorella del marchese di Mantova Francesco, una delle donne più importanti della società ispano-napoletana.
Grazie a lei, Maria crebbe e si formò nell’ambiente colto e raffinato della Napoli dell’epoca, fra il palazzo dei Cardona a San Carlo alle Mortelle, il Palazzo Villamarino al vicolo San Bartolomeo e il sontuoso palazzo Sanseverino presso la Porta Reale, quasi di fronte alla chiesa e al convento di Santa Chiara. Tutore e amministratore dei beni feudali spettanti alla giovanissima contessa era il nonno Bernardo Villamarino, conte di Capaccio e Grande Ammiraglio del Regno, che proprio in quegli anni ebbe l’alto compito di sostituire il viceré impegnato in importanti operazioni di guerra.
Siamo ai giorni dello scontro epocale per il predominio sull’Europa, che vedono in campo Carlo d’Asburgo e il re di Francia Francesco I. La battaglia della Bicocca, quella di Pavia del 24 febbraio 1525 e la successiva pace di Madrid sanciscono la supremazia di Carlo V, che è riconosciuta anche da Francesco I, finito prigioniero. Francesco, subito dopo la liberazione, organizza una forte lega antiasburgica, alla quale aderiscono tutti gli stati italiani, e attacca il Regno di Napoli. Carlo V, nella primavera del 1527, invade l’Italia un esercito con i suoi lanzichenecchi, seminando ovunque devastazione e terrore.
La città di Avellino era presidiata dalle truppe del Lautrec e costituiva la base per i rifornimenti all’esercito francese che, tra mille difficoltà, non ultima una grave pestilenza, assediavano Napoli.
La giovane contessa di Avellino probabilmente resistette in città finché fu possibile e successivamente, come buona parte delle nobildonne spagnole del Regno, nel periodo dell’occupazione francese dovette riparare nell’isola d’Ischia, per rientrare in città solo dopo che gli Spagnoli l’ebbero recuperata, mettendola però a ferro e a fuoco e riducendo la popolazione a meno di un migliaio di abitanti.
La contessa era un partito ambito, non solo per la vastità dei suoi feudi e il prestigio della sua famiglia, ma anche per le sue qualità morali, assai lodate dai contemporanei.
La famiglia favorì il suo fidanzamento con Antonio de Guevara, figlio del conte di Potenza, che però nel maggio del 1528 fu ucciso in duello, e subito dopo combinò il suo matrimonio col cugino Artale, figlio di Pietro de Cardona e di Susanna Gonzaga. Il matrimonio, peraltro sterile, non durò a lungo per la morte prematura di Artale.
Quando risiedeva in Avellino la contessa, ritenuta una delle più elette nobildonne della società ispano-napoletana, citata più volte anche tra le poetesse del Cinquecento, dimorava nel castello, che oramai non era più la fortezza che era stato fino ai tempi di Sergianni Caracciolo e di Caterina Filangieri, ma si andava ormai trasformando in una dimora nobiliare, dove artisti, letterati, religiosi, dame e cavalieri si riunivano come nella migliore tradizione delle corti rinascimentali dell’epoca.
Quasi certamente proprio attorno alla contessa Cardona prese vita l’Accademia dei Dogliosi, che aveva come emblema “un agnello in mezzo ad una fiamma” e il motto Semper Laetfì, e costituiva un consesso letterario ispirato al modello delle tante accademie sorte e moltiplicatesi proprio in quel periodo nel Regno.
In quegli anni comunque la società ispano-napoletana era tra le più brillanti e lo dimostrò nel 1535, quando Carlo V di ritorno da Tunisi, vincitore della guerra contro il pirata Barbarossa, attraversò tutto il Regno per fermarsi a lungo nella capitale. I nobili napoletani fecero a gara per festeggiarlo nel migliore dei modi e Maria de Cardona figurava negli elenchi che i cronisti fecero delle illustri nobildonne che intorno all’imperatore risplendevano “a guisa di lucidi Pianeti fra l’altre Stelle”.
Nel 1538 venivano avviate trattative per concludere un matrimonio diplomatico tra Maria e Francesco d’Este, il più giovane dei figli del duca di Ferrara Alfonso I e di Lucrezia Borgia, appartenente a una famiglia tra le più antiche, illustri e prestigiose d’Italia. Francesco, nato nel 1516, si era posto sin da giovine al servizio di Carlo V, distinguendosi per valore militare. Proprio l’imperatore volle forse compensarlo della sua fedeltà concedendogli la mano della Cardona, contessa di Avellino e marchesa di Padula, più anziana di lui, ma imparentata con alcune tra le famiglie più potenti e in vista del Regno. Il 26 gennaio 1538 Francesco d’Este, assente perché al seguito dell’imperatore, delegava ufficialmente con atto notarile suo fratello Ercole II a contrarre per lui il matrimonio.
A questi anni risale il diploma di fondazione del monastero dei Padri Domenicani con annessa chiesa dell’Annunziata, datato 4 novembre 1539.
Dopo le nozze la Cardona seguì il marito in giro per l’Italia, fu anche a Ferrara presso la corte estense e, stando a Bella Bona, “generò una figliuola, che morì nelle fasce”.
Nel 1545 i coniugi tornarono nel loro feudo, ma presto il conte dovette ripartire per partecipare alla “guerra di Parma”, mentre la contessa portava avanti da sola i lavori di riparazione e di ampliamento dell’antico castello e probabilmente avviava la costruzione del Casino di caccia, dove sono riconoscibili elementi ornamentali di gusto rinascimentale, molto simili a quelli che caratterizzano ville, fontane e parchi degli Estensi.
Intorno alla metà del secolo, furono emanate dai due coniugi varie disposizioni per la città: dalle nuove modalità per l’edilizia al regolamento per le adunanze del consiglio dei deputati e all’istituzione della fiera annuale di San Modestino
S’arriva alla ripresa della guerra tra Spagnoli e Francesi, che costrinse Francesco d’Este a partire per raggiungere il Piemonte lasciando la contessa da sola ad affrontare difficili momenti. L’alleanza del papa Paolo IV con i Francesi mette ben presto Francesco di fronte ad una scelta quasi obbligata, poiché il fratello Ercole II teneva il ducato di Ferrara come feudo della Chiesa ed era anche, per tradizione di famiglia, filofrancese.
Il passaggio di Francesco d’Este dalla parte dei Francesi determina il suo addio alla Contea avellinese e alla stessa moglie, spagnola di nascita e filospagnola per convinzione politica.
La de Cardona, pur colpita dagli eventi familiari e priva ormai di tutti quegli affetti che avevano costituito sempre per lei precisi punti di riferimento, continua la sua attività di governo con il consueto equilibrio, sorretta da quella consapevolezza del proprio ruolo acquisita fin da bambina.
È al culmine di questo triste periodo che, nel 1557, chiede al vescovo di Avellino Ascanio Albertino l’assenso a donare ai Benedettini della Congregazione di Monte Luco di Spoleto, al fine di erigervi un proprio monastero, l’area di sedime di una casa sita presso la chiesa di San Giovanni Battista della Strada, poco lontano dalla chiesa di Santo Spirito che con Francesco d’Este aveva fatto erigere al posto della demolita chiesa di Santa Maria della Rotonda, nei pressi del castello.
Nonostante l’assenso del vescovo però l’offerta non ha seguito. Cosicché l’anno successivo la contessa la rivolge alla Congregazione di Montevergine perché vi costruisca un monastero con tutte le necessarie pertinenze, chiedendo contemporaneamente per gli stessi monaci la concessione della chiesa di San Giovanni. Con la Bolla del 23 aprile del 1558, il vescovo Albertini accoglie la petizione della contessa di Avellino, consentendo così ai monaci verginiani di avviare i lavori.
Nel giugno del 1559, gli amministratori di Montevergine mettono a disposizione 180 ducati per avviare la costruzione e nell’ottobre dello stesso anno, altri 200 vengono offerti dalla Università di Avellino. I lavori procedono senza difficoltà, ed il monastero di San Giovanni entra così a far parte della grande famiglia della Congregazione di Montevergine: in una pergamena del 1560 è documentato fra Giovanni Tommaso Mazarotto, di Mercogliano, quale priore della chiesa di San Giovanni de la Strada, in Avellino; nel 1565 il priore Mazarotto parteciperà, insieme a tutti gli altri responsabili delle dipendenze verginiane, ad un’importante missione presso la Santa Sede.
Dalla fondazione in poi la famiglia monastica si accresce continuamente, arrivando a contare ben otto monaci e quattro chierici.
L’ultimo giorno di luglio del 1561, nelle ore notturne, annunciato da una tremenda tempesta di vento, pioggia e grandine, sopravviene un fortissimo terremoto, che si protrae a lungo danneggiando case e chiese e provocando lesioni e crolli anche alla torre del castello, alla cattedrale e al Palazzo vescovile. Riparare i danni richiederà non poco tempo e grandi sacrifici.
La contessa, oramai stanca, malata e ormai priva di tutti gli affetti familiari, non è in Avellino ma al Borgo di Chiaia in Napoli quando la coglie la morte “alli 9 di marzo 1563, mentre la Luna lasciava la vecchia spoglia con la rinovatione e la terra si vestiva di nuova veste”.
Nel 1583, quattordici cittadini avellinesi, appartenenti alla nobiltà e ricca borghesia della città, fra cui gli Offiero, Spatafora , Alvino, Festa, Toro, costituirono un sodalizio sotto l'invocazione della Madonna di Monserrato, culto piuttosto recente, introdotto dagli spagnoli ed affermatosi in Italia nella prima metà del XVI secolo, presente nella nostra diocesi, oltre che ad Avellino, anche a Montefredane, Gesualdo e Paterno.
Nella chiesa di San Giovanni al momento della fondazione della confraternita già esisteva un altare dedicato a questa Madonna sita intus dicta ecclesie, come si legge nell'atto di fondazione del 1583. Non priva di fondamento sembra l'ipotesi che sia stata proprio la de Cardona, in memoria delle radici catalane della propria famiglia paterna, ad introdurre nella nostra città di questo culto mariano.
Dopo che furono stabilite le specifiche competenze e spettanze da osservarsi da parte della confraternita e del Priore del monastero, quest'ultimo si impegnò a cedere un'area di circa 20 metri quadrati per costruire, dalla parte destra della chiesa, una dignitosa cappella con la fossa per le sepolture ed anche un'area di circa per una piccola sacrestia.
Probabilmente, in questo periodo, fu la stessa confraternita a commissionare la prestigiosa statua lignea rappresentante, nella sua forma più classica, la bella Madonna di Monserrato con il bambino che regge il Globo.
Alla morte della de Cardona, avvenuta nel 1583, in mancanza di eredi, la contea di Avellino era passata alla Regia Camera, e dopo alcune vicende veniva acquistata dai Caracciolo Rossi.
Dopo circa 25 anni di intensa attività, per cause che è difficile stabilire, il monastero di San Giovanni s’era intanto avviato a un graduale ma costante periodo di crisi: nel 1594 ospitava oramai solo il priore ed un chierico e nel 1596 anche l'ultimo monaco era andato via e la chiesa venne affidata all'arciprete di Avellino
Camillo Caracciolo, figlio di Marino, primo principe di Avellino, il 10 gennaio del 1614 , stipulava un accordo con l'abate di Montevergine per dar vita ad un ampio piano di ristrutturazione dell'intero complesso monastico.
Il principe, oltre a dotare il monastero di una rendita annua di 190 ducati, si impegnò a portare a termine il nuovo complesso entro quattro anni. Per l'ampliamento della chiesa, che prevedeva un'ampia tribuna, sormontata da una cupola, destinata ad accogliere il nuovo altare maggiore, si rese necessario acquistare un'area, adiacente alla chiesa, di proprietà del vicino monastero di San Paolo, gestito in quel tempo dai padri camaldolesi.
Il principe Camillo intendeva localizzare le sepolture di famiglia proprio nel monastero, che si trovava vicino al castello e di fronte al casino di caccia che immetteva nello splendido giardino da cui ci si inoltrava negli ameni boschi del Parco, ricco di piante rare e selvaggina.
Purtroppo il principe Camillo non vide realizzati i suoi sogni, in quanto improvvisamente moriva, mentre si trovava a Caravaggio il 15 aprile del 1617, né il monastero di San Giovanni accolse mai le sue spoglie e neppure quelle dei suoi eredi, in quanto sarebbe stata la chiesa di Santa Maria del Monte Carmelo, più vicina al nuovo centro della città, ad essere prescelta quale sacrario di famiglia.
Il monastero intorno al 1620 comunque fu completato e nel 1621 venne elevato dalla comunità verginiana alla dignità di priorato benedettino
A Camillo successe Marino II. Morto precocemente , gli successe postumo Francesco Marino I , che sino alla maggiore età ebbe come tutore lo zio Tommaso.
Agli inizi del ‘600 , quando su disegno dell'architetto Marco Conti venne portato a termine il nuovo complesso monastico, la chiesa si presentava ad una unica navata e nella parte terminale comprendeva una tribuna con l'altare maggiore sormontata da una cupola. Sul lato sinistro, in successione, si trovava la sacrestia e la cappella di S.M. di Monserrato, dalla quale si accedeva all'Oratorio dell'omonima confraternita, costruito in corrispondenza della tribuna, lungo l'asse Est-Ovest. Questo è l’impianto che si ritrova nei famosi disegni eseguiti agli inizi del 'Settecento dal Don Franco Maria Orsi da Bologna, che illustrano anche con particolare cura l’aspetto del contiguo monastero.
La statua della Moreneta è stata recuperata quasi trent’anni fa, dopo il terremoto dell’Ottanta.
Al momento del recupero la statua risultava totalmente ridipinta, ma dopo la rimozione dell’ultimo pesante strato e la relativa pulitura, riemergeva l’antica originaria policromia, costituita da un fondo blu sul quale si dipanavano motivi fitomorfi sia sul manto della Madonna che sulle vesti del Bambino, il tutto realizzato mediante una tecnica in auge nei territori spagnoli da inizio Cinquecento fino al Settecento inoltrato, la cosiddetta doratura ad estofado, che consisteva nel ricoprire la statua quasi per intero con sottili foglie d’oro, sulle quali venivano stesi i colori, per poi far emergere i motivi decorativi venivano semplicemente graffiando la superficie esterna.
La statua è stata trasportata alla Certosa di San Lorenzo a Padula per esservi restaurata, e da allora non è più tornata ad Avellino, nella sua chiesa.
Come non sono più tornate indietro le ventuno tele, due altre statue lignee, una sedia processuale, una tela da soffitto. Tre tele erano collocate sulle pareti della tribuna. La prima dietro l'altare maggiore raffigurava San Giovanni Battista che predica alle turbe, ed è siglata AMRP (abate Michele Ricciardi pinxit) La seconda e la terza ai lati dell' altare raffigurano «Gesù tra i dottori e la «Natività). Altri tre quadri raffiguranti il «Sogno di San Giuseppe), l'Adorazione dei Magi e la Fuga in Egitto sono copia delle omonime opere del Solimena, esistenti in Napoli nella chiesa di Santa Maria di Donnalbina, e sono databili alla prima metà del Settecento. Le altre tele, sempre databili al sec. XVIII, raffigurano i dottori della chiesa Agostino Girolamo e Bonaventura; «San Francesco di Paola), «Tobiolo e l'angelo, «Due Santi vescovi e san Benedetto. Altre tele sono ascrivibili al XIX secolo e sono di modesta fattura locale.
Sono restate sul posto vari altari, che giorno per giorno si sfaldano, e altre tre statue, una raffigurante San Giuseppe, una seconda San Francesco, una terza Gesù Cristo: le parola non bastano a trasmettere la sensazione del doloroso abbandono in cui versano.
Cosa si aspetta?
Che il tempo consumi ancora un po’ di quello che resta, per poi veder saltare su il solito imbecille indaffarato che, gridando al pericolo, proporrà per questa ultima morente chiesa e per i suoi tesori dimenticati, il solito colpo di piccone demolitore?
Un po’ come il Comune di Avellino sta facendo pochi metri più avanti, a Gradelle Tintiere, dove si aspetta solo che l’attenzione cali, per spazzare via le vecchie pietre e con esse l’ultimo pezzo della nostra memoria.