’O scarparo soprannominato cirasiello
prof. Gaetano d’Argenio - 18 aprile 2009 - © Copyright
Ad Avellino il nome "scarparo" senza alcuna distinzione veniva attribuito a due categorie artigianali apparentemente simili, cioè il calzolaio e il ciabattino. Infatti mentre " ’o scarparo", in italiano calzolaio o scarpaio, era l’artigiano che fabbricava esclusivamente scarpe, stivali, scarponi, anfibi, mocassini, polacchini e sandali non disdegnando talvolta la riparazione degli stessi una volta rotti, " ’o solachianielli", in italiano ciabattino, era invece l’artigiano che si dedicava esclusivamente al rattoppo, alla riparazione ed alla risolatura delle scarpe perché non era in grado di costruire quelle nuove. In via San Francesco Saverio n. 1, angolo con via Rio Cupo, era ubicata l’abitazione mentre al civico n. 13 della stessa via si trovava la piccola bottega del noto, bravo ed infaticabile calzolaio Vincenzo De Venezia, soprannominato "cirasiello" per il naso rosso indotto dal copioso vino rosso bevuto esclusivamente durante i pranzi e le cene delle domeniche e delle altre festività religiose.
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Questa sua prerogativa si rifaceva a San Crispino, bevitore di vino, che viene festeggiato il 25 ottobre. Infatti su una parete della sua bottega aveva posizionato ben in vista un bel quadro a colori raffigurante San Crispino che era ed è il patrono dei calzolai e dei lavoratori del cuoio.
Era anche un incallito fumatore di sigarette "Alfa", "Nazionali", "Sport" e "Macedonie" che affumicavano nel periodo invernale la sua bottega mettendo a rischio la vita dei cardellini in gabbia che allevava con tanta passione. "Masto Vicienzo", nato nel 1886 e morto nel 1966, nonostante avesse già una moglie e tre figli, partecipò attivamente alla 1^ guerra mondiale del 1915-1918 combattendo sull’Isonzo, a Caporetto, sul Piave e sul Monte Grappa. La sua bravura artigianale era nota a tutti perché era capace di fare qualsiasi tipo di scarpa, stivali, stivaletti, scarponi, anfibi, scarponcelli, mocassini, polacchini e sandali per le persone adulte e per i bambini.
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Ma la sua maestrìa si manifestava anche quando assemblava " e’ zuoccoli", in italiano zoccoli, fatti in resistente legno di pioppo ed usati dai contadini, le cui forme in legno venivano acquistate presso laboratori artigianali specializzati
e sulle quali inchiodava la tomaia di stoffa cucita a macchina, chiusa anteriormente e fissata sul legno con strisce di latta stagnata. Anche i "chianielli", in italiano pianelle, erano assemblate utilizzando gli indumenti usati per costruire tomaie, chiuse anteriormente, calde e leggere come quelle degli zoccoli, che le figlie disegnavano, tagliavano e cucivano con una robusta macchina Singer, una sottile e flessibile suola per fare la base di appoggio del piede e di ancoraggio della tomaia in stoffa, ed una suola ricavata da pezzi riciclati di logori copertoni di bicicletta, materiali reperibili, poco costosi, robusti, resistenti all’usura ed impermeabili all’acqua. Le sue ore di lavoro iniziavano all’alba e terminavano a sera inoltrata fino a quando non si spegneva la viva luce di un lume alimentato ad acetilene, gas prodotto dalla reazione chimica tra acqua e carburo di calcio che veniva acquistato nell'assortito negozio di ferramenta "Tortoriello",ubicato in via Umberto 1° .Ogni giorno, dopo il pranzo di mezzogiorno, "masto Vicienzo" dormiva per 1-2 ora al fine di riprendere il lavoro pomeridiano con maggiori energie da consumare fino a sera inoltrata.Il riposo lavorativo settimanale era limitato esclusivamente al pomeriggio delle domeniche, di Pasqua e di Natale. Nei pomeriggi domenicali estivi si dedicava con gli amici del rione al gioco delle bocce utilizzando come campo da gioco la sterrata ed accidentata via Rio Cupo. Le bocce utilizzate, rigorosamente in legno duro, venivano costruite artigianalmente dal tornitore Mallardo di via Luigi Amabile. Spesso la mancata osservanza delle regole federali di gioco era la causa di discussioni tra "masto Vicienzo", giocatore dilettante ma con la presunzione di avere sempre ragione, e gli altri compagni bocciofili che partecipavano ai tornei provinciali. I manufatti calzaturieri venivano venduti prevalentemente nella sua bottega ma anche durante i mercati tenuti in città e nella vicina Atripalda, distante appena 4 Km. da Avellino.Infatti con in testa una larga "sporta" , in italiano cesta o canestro, costruita con strisce di castagno e colma di scarpe, di "zuoccoli" e di "chianielli", la moglie Maria andava a piedi al mercato di Atripalda per vendere le calzature realizzate dal marito. Spesso la numerosa famiglia De Venezia era costretta ad aspettare i soldi portati dalla signora Maria, che ritornava dal mercato ancora una volta a piedi per risparmiare il costo del viaggio in carrozzella, per poter comprare il cibo sufficiente per l’intera settimana.
"Masto" Vincenzo De Venezia era stimato e rispettato da tutte le persone del quartiere sia povere che nobili.Tra queste ultime ricordo i Raspanti, i Carpentieri, i Cirino, i Convenevole, i Vicario, i Battaglia, i De Fabrizio, i Landri, i Pascucci, i Pensa, i Rescigno, i Marino, i Prete, gli Imbagliazzo, i Ranucci, i Cantelmo, etc. Oltre a
pacificare qualche sporadica discussione rionale,"cirasiello" era anche il
saggio della via "Beneventana" perché dava buoni consigli al
"vicinato"
che si rivolgeva a lui per varie
problematiche.
Indossando un lungo grembiule in cuoio, "masto Vicienzo" si posizionava davanti "’o bancariello", in italiano bischetto o deschetto, che era un piccolo tavolino quadrato a 4 piedi sul quale venivano poggiati tutti gli utensili del mestiere. Spesso il bischetto era dotato di due "tiretti" o "cascetti", in italiano cassetti, per riporre gli utensili ed altro materiale. Lo sgabello in legno o la sedia in paglia dovevano avere un’adeguata altezza per far assumere una posizione sempre orizzontale alle ginocchia sulle quali bisognava appoggiare stabilmente l’ incudine metallica a forma di piede rovesciato quando si inchiodavano le scarpe nuove non cucite o quelle da riparare. Per costruire una normale scarpa necessitavano più fasi lavorative consecutive che richiedevano molto tempo e fatica.
Utilizzando un semplice pezzo di spago, " cirasiello" prendeva con precisione le misure della pianta del piede, della larghezza delle dita, dell’altezza del collo del piede e della circonferenza sopra la caviglia.
Dopo aver preso le misure disegnava le sagome della tomaia, dei "guardiuncielli ", in italiano sottotomaie, e dei due tramezzi laterali sulla pelle di capretto o di vitello o di camoscio o di daino, comprata presso l’assortito negozio per calzolai di Vincenzino Tino, ubicato in Avellino alla via Modestino del Gaizo n. 9.
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La sagoma della tomaia e dei tramezzi venivano tagliati col trincetto che era una lama di acciaio, affilatissima, aguzza, larga 2 dita, ricurva alle due estremità e senza manico. Utilizzato anche per scarnificare e raffinare il cuoio, il trincetto veniva affilato frequentemente con la tela smeriglia, a grana sottilissima di colore grigio scuro, o con la pietra levigatrice.
Le varie parti della tomaia e i due tramezzi laterali erano cuciti dalla figlia Lucia con una robusta macchina "Singer" per cucire.
Sui tramezzi laterali faceva dei fori passanti col "precetto", perforatrice multipla, nei quali poi inseriva e fissava degli occhielli metallici utilizzando la particolare macchina occhiellatrice. Attraverso questi fori faceva passare "’i lacci", in italiano stringhe, di cuoio o di cotone pesante, che facevano aderire le scarpe al piede.
Successivamente col trincetto tagliava la soletta in cuoio del plantare, necessario per fissare la tomaia, e la suola esterna di completamento, in dialetto chiamata " ’a chiandella", che doveva essere messa preventivamente a bagno in acqua e poi adeguatamente martellata per renderla morbida e flessibile.
Prendeva poi le forme del piede sinistro e destro, ricavate preferibilmente da legno di faggio, di acero e di carpino , scelte tra le varie misure sulle quali fissava il plantare in cuoio utilizzando " ’e semenzelle" in ferro n. 8-10-12-14-16 , in italiano semenze che avevano una testa larga e piatta, un gambo quadrato e una punta affilata. Spesso presentavano un rivestimento rameico superficiale per evitare l’ossidazione del metallo ferroso.
Successivamente stendeva sul plantare un velo di una particolare colla flessibile ed impermeabile per far aderire la tomaia che egli incollava aiutandosi con una particolare pinza metallica tirapelle che non rovinava la tomaia e che era costituita da due parti simmetriche, articolate mediante un perno centrale. Con questa prima operazione "cirasiello" iniziava a montare una scarpa .
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Dopo l’asciugatura della colla tirava fuori dalle scarpe le forme in legno col tiraforme, un particolare ferro uncinato che veniva agganciato in un apposito foro creato nella parte posteriore della forma del piede.
Posizionava poi la suola esterna sul plantare e sulla tomaia che, insieme, cuciva a mano con dello spago di canapa preventivamente impecciato con pece naturale chiara (composta di resina d’abete mescolata con olio e con altre sostanze chimiche oppure ) o con pece nera bituminosa (ottenuta dalla distillazione di catrami ricavati da sostanze organiche).Le peci, anche molto viscose, si scioglievano facilmente al calore ed erano usate per impermeabilizzare, per aumentare la resistenza e per prolungare la vita dello spago."Masto Vicienzo" d’estate coltivava all’interno della sua bottega alcune piantine di basilico il cui piacevole profumo neutralizzava gli odori sgradevoli della pece e del cuoio.
Per la cucitura al posto dei rigidi aghi in acciaio, abitualmente usava le lunghe e flessibili setole di suino o di cinghiale che fissava alle due estremità dello spago.
Per la cucitura incrociata a mano usava " ’a suglia" , in italiano lesina, che era un utensile in acciaio di forma curva, diritta, rotonda e piatta, necessaria per perforare i tre strati da cucire con lo spago precedentemente impecciato con pece greca.
Con la cucitura incrociata a mano venivano unite contemporaneamente e saldamente la suola terminale, il plantare e la tomaia che diventavano un corpo unico. I singoli punti di cucitura venivano stretti fortemente con le sue mani protette da "’e manopole" di pelle, in italiano manale o guardamano , che fasciavano le palma e i dorsi delle due mani al fine di evitare profonde ferite sulle cute causate inevitabilmente dallo spago tirato molto forte. Questa protezione proteggeva anche le mani dalle pungitore che potevano derivare dall’uso della lesina.
Successivamente col tipico martello a penna liscia, in dialetto ’o martiello re’ scarpari, fissava i tacchi in cuoio con i "bollettoni", chiodi corti quadrati.
Con le raspa, a denti radi e grossi, sgrossava sommariamente il bordo esterno della suola e gli strati di cuoio che formavano i tacchi mentre col raspino, a denti fitti e piccoli , rifiniva le superfici.
Talvolta il calzolaio era costretto ad usare l’anilina, colorante nero o marroncino, per eliminare eventuali piccole decolorazioni esistenti sulla pelle delle tomaie.
La cera d’api, colorata in nero e in marroncino, veniva usata per impermeabilizzare ed abbellire i bordi della suola e dei tacchi utilizzando un utensile metallico particolare, " ’o piere ’e puorco", in italiano bordatore. Prima dell’uso doveva essere riscaldato sul braciere invernale alimentato con carboni di quercia o di cerro perché producevano molto calore e poco fumo.
" ’O lisciapiante ", in italiano bussetto o bisegolo, era un arnese costruito in metallo oppure ricavato dal durissimo e compatto legno di bosso, arbusto molto diffuso nella macchia mediterranea. Veniva usato per levigare e lucidare le superfici della suola e dei tacchi al fine di rendere le scarpe esteticamente più belle ed eleganti.
Con una colla preparata con acqua e farina, cotta per alcuni minuti in un tegamino, incollava le ultime solette plantari delle scarpe che, pertanto, potevano essere consegnate ai clienti.
L' incudine metallica a forma di piede rovesciato veniva fissato su apposito sostegno di legno o di ferro, opportunamente sagomato che veniva appoggiato sulle ginocchia. L’incudine, detto anche semplicemente piede, permetteva di inchiodare le "semenzelle" ,in italiano semenze, sulla suola delle scarpe e di piegarne il gambo quadrato sporgente oltre lo spessore della soletta in cuoio del plantare.
Un tempo venivano inchiodati lateralmente sui tacchi i "sarvatacchi",in italiano salvatacchhi a forma di mezze lune metalliche, e sulle punte della scarpa " ’e puntette" , in italiano salvapunte metalliche, di forma triangolare , che evitavano il rapido consumo di queste due parti importanti della scarpa. Addirittura sull’ intera suola esterna spesso venivano messi dei chiodi a gambo tagliato con la testa quadrata tronco-piramidale o allungata, chiamati "centrelle" , che rendevano le scarpe quasi eterne perché si consumavano soltanto questi chiodi e non la suola. La sostituzione delle "centrelle , economicamente vantaggiosa per le persone povere, rendeva praticamente la scarpa utilizzabile per moltissimi anni. Purtroppo salvatacchi, salvapunte e "centrelle" provocavano non solo un fastidioso rumore metallico sul selciato delle strade e dei pavimenti delle abitazioni ma esse erano anche la causa di pericolosi scivoloni per mancanza di un adeguato attrito tra suola e superfici levigate. Viceversa le "centrelle" aiutavano a camminare bene sulle strade sterrate, bagnate e scivolose perché favorivano una maggiore aderenza della scarpa.
Oltre alla singola incudine per le scarpe degli adulti, " ’o scarparo" utilizzava anche la triplice incudine metallica per poter inchiodare le tre misure più comuni di scarpe per bambini.
La tenaglia a due ganasce, simmetriche ed articolate mediante un perno centrale, serviva a togliere i chiodi rotti dalle scarpe che dovevano poi essere riparate.
San Crispinodi Ferdinando Russo - Napoli 1866-1927
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