AVELLINO E IL REFERENDUM ISTITUZIONALE DEL 2 Giugno 1946
di
Gerardo Pescatore
Il 2 giugno 1946 si svolse l’unico
referendum istituzionale della nostra storia per la scelta tra Monarchia e
Repubblica.
Umberto
di Savoia, nominato nel giugno del 1944 dal padre il re Vittorio Emanuele III Luogotenente Generale del Regno, dispose
con Decreto
Legislativo Luogotenenziale del 16 marzo 1946 n. 98 che dopo la liberazione del territorio
nazionale, la forma istituzionale dello Stato italiano sarebbe stata decisa
mediante un referendum popolare.
Domenica 2 giugno i seggi rimasero aperti dalle 6
alle 22 e il 3
giugno fino alle ore 12 con una massiccia partecipazione in
quanto ebbero
diritto di voto, per la prima volta, le donne di almeno 21 anni di età.
Infatti il Consiglio dei Ministri dell’Italia
Libera presieduto da Ivanoe Bonomi aveva approvato, su
proposta di Palmiro Togliatti e Alcide De Gasperi, il Decreto Legislativo Luogotenenziale
n. 23 del 1° febbraio 1945 che estendeva il
diritto di voto alle donne che avessero compiuto il ventunesimo anno di età al
31 dicembre 1944, introducendo così in Italia il suffragio
universale, con diritto di voto attivo e passivo, che venne attuato già nelle
elezioni amministrative della primavera del ’46.
Tutti i partiti di sinistra, il PCI, il PSIUP
(partito socialista di unità proletaria), il Partito d’Azione, il PRI), insieme al sindacato ancora unitario (CGIL), e al PLI, si espressero apertamente a
favore del sistema repubblicano.
Favorevoli al re invece si dichiararono solo il piccolo
PDI (Partito democratico italiano), le formazioni partigiane
monarchiche (tra i loro massimi esponenti, la medaglia d’oro al valor militare Edgardo Sogno, che negli anni
settanta sarà coinvolto
con Randolfo Pacciardi in un presunto golpe), e – sia
pure in modo non dichiarato – le Forze Armate, che si erano battute a fianco
degli Alleati per fedeltà al giuramento prestato alla monarchia, e l’Arma dei
Carabinieri.
La Democrazia Cristiana (come anche il fronte
dell’Uomo Qualunque) lasciò libertà di voto, anche se fece proprio il sistema
repubblicano. La scelta della DC fu dovuta
dalla necessità di non far spostare il consenso dei contadini meridionali,
verso i partiti monarchici o qualunquisti
e di
evitare di rompere l’unità del partito nelle contestuali elezioni
per l’assemblea costituente.
La decisione degli organi nazionali
suscitò ad Avellino un dibattito assai vivace, Il congresso provinciale irpino,
svoltosi a Mercogliano dall’11 al 14 marzo, mise in minoranza la posizione del segretario provinciale Fiorentino Sullo
favorevole alla repubblica, mentre sostenne la tesi di lasciare agli elettori
la soluzione del problema istituzionale rappresentata dall’avv. Giovanni De
Rosa, che prevalse a maggioranza.
La campagna referendaria si svolse in
clima fortemente acceso, contrassegnato da polemiche e
da qualche incidente. L’episodio più grave avvenne durante una manifestazione
monarchica, quando al corso Vittorio Emanuele fu
accoltellato il comunista Guido Guerriero, fratello del giornalista Augusto
Guerriero, noto con lo pseudonimo di Ricciardetto.
Ad Avellino la partecipazione dei votanti fu altissima e raggiunse l’87%. Il dato
referendario, per quanto l’Irpinia contasse tra le
province campane la percentuale più alta a favore della repubblica (30,8%),
confermò l’inclinazione moderata e tradizionalista dell’elettorato avellinese, rafforzata
dalla maggioranza dei democristiani, grazie anche al diffuso
intervento del clero a favore dell’istituto monarchico.
Qualcuno, come Guido Dorso, si era illuso che i contadini si sarebbero
espressi per la repubblica per realizzare quella rivoluzione meridionale, che l’avvocato avellinese auspicava,
ma fu una
cocente delusione.
Questi i risultati del referendum
nella nostra città, dove, come in tutte le regioni meridionali, vinse
largamente la Monarchia:
Votanti |
17.308 |
|
Schede
nulle |
232 |
1,34% |
Schede
bianche |
456 |
2,63% |
Voti nulli per la
Repubblica |
1 |
0,01% |
Voti nulli per la
Monarchia |
7 |
0,04% |
Voti contestati per la
Repubblica |
5 |
0,03% |
Voti contestati per la
Monarchia |
7 |
0,04% |
Totale voti validi |
16.600 |
95,51% |
Voti conferiti alla
Repubblica |
4.625 |
27,88% |
Voti conferiti
alla Monarchia |
11.975 |
72,14% |
(fonte: Comune di
Avellino Archivio storico delle elezioni)
Lo
stesso risultato maturò in tutta l’Irpinia: la Monarchia riportò 149.800 voti (69,25%),
mentre la Repubblica ottenne 66.525 voti (30,75%). dove
su 111 comuni, la repubblica prevalse solo in 15 Comuni (Aquilonia, Bagnoli
Irpino, Bisaccia, Flumeri, Frigento,
Guardia dei Lombardi, Lacedonia, Montecalvo, Montoro Superiore, Morra De Sanctis, S. Martino Valle
Caudina, S. Sossio Baronia, Torella, Trevico,
Vallata,). prevalentemente dell’alta Irpinia nei quali
i comunisti ed i socialisti erano più radicati
Monarchia: voti 149.800 (69,25%)
Repubblica : voti 66.525
(30,75%)
Il Corriere dell’Irpinia, ritornato sotto la direzione dell’avv. Alfonso
Carpentieri, era allineato su posizioni borghesi e di destra e nel numero dell’8
giugno 1946 salutava con un titolo a
tutta pagina il successo della monarchia nella nostra provincia
Anche ad
Avellino giunse l’eco delle aspre polemiche, scoppiate dopo lo scrutinio. Si
aprì un lungo braccio di ferro, che ebbe momenti drammatici, tra governo e l’UMI (Unione Monarchica Italiana),
che sollevò una serie di questioni procedurali sulle modalità
di conteggio dei voti e denunce
per presunti brogli.
La principale contestazione fu che non tutti gli Italiani
avevano potuto votare. Infatti con decreto legislativo
n. 69/1946, il governo deliberò di non concedere il diritto di voto ai
cittadini delle tre province (Bolzano, Trieste e Gorizia), ancora amministrate
dalle truppe alleate, su cui nel 1946 Roma non aveva riacquistato la sovranità.
Inoltre per i
monarchici, secondo
il decreto di indizione
del referendum, la forma istituzionale vincitrice avrebbe dovuto aggiudicarsi
la maggioranza degli elettori votanti,
scaturita
dalla somma dei voti a monarchia e a repubblica, delle schede bianche e delle schede
nulle. Ma tutti i loro ricorsi furono respinti dalla
Cassazione, che stabilì che per maggioranza
degli elettori votanti si dovesse in realtà intendere maggioranza dei voti validi.
Lunedì
10 giugno, alle ore 18,00 nel Salone della Lupa
di Montecitorio, il presidente della Corte di Cassazione Giuseppe Pagano comunicò i risultati raggiunti
favorevoli alla repubblica e, poiché mancavano 118 sezioni, rinviò la proclamazione definitiva ad una
successiva seduta fissata per il giorno 18.
Ma subito dopo il Presidente del Consiglio Alcide De Gasperi, che guidava una coalizione DC-PSI-PCI-PRI, senza attendere il giudizio definitivo della Corte di Cassazione, destituì di fatto il Re assumendo le funzioni di Capo provvisorio dello Stato, che mantenne fino al 28 giugno quando l’assemblea costituente elesse Enrico De Nicola.
In risposta Umberto II reagì diramando all’Ansa
alle ore 22 del 13 giugno 1946 il famoso proclama, nel quale denunciò
l'illegalità commessa dal governo e confermò
che avrebbe atteso le decisioni della Corte
Suprema di Cassazione, dichiarandosi pronto a lasciare l’Italia per
scongiurare agli Italiani nuovi lutti.
Il 18 giugno infine, la Corte di cassazione, con dodici magistrati contro
sette, proclamò i risultati definitivi: la Repubblica ottenne 12.718.641, pari
al 54,3 per cento dei voti validi, mentre i favorevoli alla Monarchia risultarono 10.718.502 elettori, pari al 45,7 per cento).
|
|
Voti |
% |
10 718 502 |
45,73% |
||
12 718 641 |
54,27% |
||
bianche/nulle (non valide) |
|
1 509
730 |
|
Totale voti validi |
|
23 437 143 |
100% |
(fonte: Ministero dell’Interno- Archivio
storico delle elezioni)
Questo esito del referendum segnò la nascita della nuova Italia
democratica, che venne completata con la contestuale
elezione dei deputati all’Assemblea costituente incaricati di redigere la nuova carta
costituzionale.